Luna e poesia

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  1. Sibilla
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    Ispirata dalla luna di ieri notte, la superluna dell'equinozio di primavera, dedico al Vascello questi meravigliosi canti del mio poeta preferito

    G. Leopardi- ALLA LUNA

    O graziosa luna, io mi rammento
    Che, or volge l'anno, sovra questo colle
    Io venia pien d'angoscia a rimirarti:
    E tu pendevi allor su quella selva
    Siccome or fai, che tutta la rischiari.
    Ma nebuloso e tremulo dal pianto
    Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
    Il tuo volto apparia, che travagliosa
    Era mia vita: ed è, nè cangia stile,
    O mia diletta luna. E pur mi giova
    La ricordanza, e il noverar l'etate
    Del mio dolore. Oh come grato occorre
    Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
    La speme e breve ha la memoria il corso,
    Il rimembrar delle passate cose,
    Ancor che triste, e che l'affanno duri!


    G. Leopardi, CANTO NOTTURNO Dl UN PASTORE ERRANTE DELL' ASIA

    Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
    Silenziosa luna?
    Sorgi la sera, e vai,
    Contemplando i deserti; indi ti posi.
    Ancor non sei tu paga
    Di riandare i sempiterni calli?
    Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
    Di mirar queste valli?
    Somiglia alla tua vita
    La vita del pastore.
    Sorge in sul primo albore
    Move la greggia oltre pel campo, e vede
    Greggi, fontane ed erbe;
    Poi stanco si riposa in su la sera:
    Altro mai non ispera.
    Dimmi, o luna: a che vale
    Al pastor la sua vita,
    La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
    Questo vagar mio breve,
    Il tuo corso immortale?

    Vecchierel bianco, infermo,
    Mezzo vestito e scalzo,
    Con gravissimo fascio in su le spalle,
    Per montagna e per valle,
    Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
    Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
    L'ora, e quando poi gela,
    Corre via, corre, anela,
    Varca torrenti e stagni,
    Cade, risorge, e più e più s'affretta,
    Senza posa o ristoro,
    Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
    Colà dove la via
    E dove il tanto affaticar fu volto:
    Abisso orrido, immenso,
    Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
    Vergine luna, tale
    E' la vita mortale.

    Nasce l'uomo a fatica,
    Ed è rischio di morte il nascimento.
    Prova pena e tormento
    Per prima cosa; e in sul principio stesso
    La madre e il genitore
    Il prende a consolar dell'esser nato.
    Poi che crescendo viene,
    L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
    Con atti e con parole
    Studiasi fargli core,
    E consolarlo dell'umano stato:
    Altro ufficio più grato
    Non si fa da parenti alla lor prole.
    Ma perchè dare al sole,
    Perchè reggere in vita
    Chi poi di quella consolar convenga?
    Se la vita è sventura,
    Perchè da noi si dura?
    Intatta luna, tale
    E' lo stato mortale.
    Ma tu mortal non sei,
    E forse del mio dir poco ti cale.

    Pur tu, solinga, eterna peregrina,
    Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
    Questo viver terreno,
    Il patir nostro, il sospirar, che sia;
    Che sia questo morir, questo supremo
    Scolorar del sembiante,
    E perir dalla terra, e venir meno
    Ad ogni usata, amante compagnia.
    E tu certo comprendi
    Il perchè delle cose, e vedi il frutto
    Del mattin, della sera,
    Del tacito, infinito andar del tempo.
    Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
    Rida la primavera,
    A chi giovi l'ardore, e che procacci
    Il verno co' suoi ghiacci.
    Mille cose sai tu, mille discopri,
    Che son celate al semplice pastore.
    Spesso quand'io ti miro
    Star così muta in sul deserto piano,
    Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
    Ovver con la mia greggia
    Seguirmi viaggiando a mano a mano;
    E quando miro in cielo arder le stelle;
    Dico fra me pensando:
    A che tante facelle?
    Che fa l'aria infinita, e quel profondo
    Infinito Seren? che vuol dir questa
    Solitudine immensa? ed io che sono?
    Così meco ragiono: e della stanza
    Smisurata e superba,
    E dell'innumerabile famiglia;
    Poi di tanto adoprar, di tanti moti
    D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
    Girando senza posa,
    Per tornar sempre là donde son mosse;
    Uso alcuno, alcun frutto
    Indovinar non so. Ma tu per certo,
    Giovinetta immortal, conosci il tutto.
    Questo io conosco e sento,
    Che degli eterni giri,
    Che dell'esser mio frale,
    Qualche bene o contento
    Avrà fors'altri; a me la vita è male.

    O greggia mia che posi, oh te beata,
    Che la miseria tua, credo, non sai!
    Quanta invidia ti porto!
    Non sol perchè d'affanno
    Quasi libera vai;
    Ch'ogni stento, ogni danno,
    Ogni estremo timor subito scordi;
    Ma più perchè giammai tedio non provi.
    Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
    Tu se' queta e contenta;
    E gran parte dell'anno
    Senza noia consumi in quello stato.
    Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
    E un fastidio m'ingombra
    La mente, ed uno spron quasi mi punge
    Sì che, sedendo, più che mai son lunge
    Da trovar pace o loco.
    E pur nulla non bramo,
    E non ho fino a qui cagion di pianto.
    Quel che tu goda o quanto,
    Non so già dir; ma fortunata sei.
    Ed io godo ancor poco,
    O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno.
    Se tu parlar sapessi, io chiederei:
    Dimmi: perchè giacendo
    A bell'agio, ozioso,
    S'appaga ogni animale;
    Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?

    Forse s'avess'io l'ale
    Da volar su le nubi,
    E noverar le stelle ad una ad una,
    O come il tuono errar di giogo in giogo,
    Più felice sarei, dolce mia greggia,
    Più felice sarei, candida luna.
    O forse erra dal vero,
    Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
    Forse in qual forma, in quale
    Stato che sia, dentro covile o cuna,
    E' funesto a chi nasce il dì natale.
     
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