Le "Upanishad"

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  1. leAlidelDestino
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    "Upanishad"





    Le "Upanishad" sono un insieme di testi, gli uni in prosa, gli altri in versi, i più antichi dei quali risalgono all'inizio del I millennio a.C. Il termine "Upanishad" è di per se stesso rivelatore. E' rimasto a lungo oscuro per la filologia occidentale, ma si è finito per trovare l'accordo su un'interpretazione che posso riassumere brevemente così: le "Upanishad" sarebbero la scienza esoterica delle corrispondenze di ogni specie, che reggerebbero i diversi livelli della manifestazione. Più in particolare le "Upanishad" si presenterebbero come la scienza dei parallelismi, delle omologie, che si possono stabilire tra il corpo o più esattamente tra la persona umana, il sacrificio e il cosmo. Soprattutto nelle "Upanishad" più antiche un gran numero di passi ci mostrano che una certa realtà della persona corrisponde a una certa parte del sacrificio, corrisponde a una certa struttura del cosmo, nel senso, per esempio, in cui si può dire che il respiro dell'uomo corrisponde alle correnti cosmiche che fanno muovere gli astri, i pianeti o che l'occhio dell'uomo, con la luce che vi brilla, è omologo al sole, eccetera.

    Come è stato possibile, a partire da queste premesse, delineare una metafisica? Perché dopo aver fatto corrispondere gli elementi costitutivi della persona, del sacrificio e del cosmo ci si è chiesti se non ci fosse un'origine comune di quelle corrispondenze, si è cercato in particolar modo, riguardo alla persona umana, se l'intimo principio della sua unità non dovesse essere, a sua volta, comparato a un altro elemento sottostante a tutti i fenomeni esterni, all'unità che sottostà ai fenomeni esterni.

    Così si sono enucleate due nozioni assolutamente fondamentali, da una parte quella dell'atman, del "sé", di ciò che dall'interno unifica la persona, costituisce l'origine unica dei suoi atti, dei suoi pensieri, dei suoi comportamenti in generale. Dall'altra, prolungando la speculazione dei "Brahmana", sul sacrificio in particolare, la nozione di qualcosa che sarebbe come il fondamento nascosto dei fenomeni, il fondamento nascosto dell'organizzazione dei fenomeni in un cosmo unico, e si è chiamato brahman questa entità.

    La mossa decisiva delle "Upanishad" è consistita, dopo aver messo in parallelo, l'atman e il brahman, nel superare la tappa seguente, cioè nel porre con una arditezza straordinaria il principio della loro unità. Da quel momento prendeva senso l'idea che la persona umana non fosse semplicemente un'entità minima, perduta nel divenire universale, ma che possedesse una dignità ontologica, perfettamente identica a quella dell'assoluto. Quindi le "Upanishad", almeno nelle parti più speculative dei testi, sono piene di una specie di ebrezza mistica, dell'allegrezza in cui si esprime la meraviglia di scoprire che, in un certo modo, l'interno contiene già l'esterno, che la persona umana è in un certo senso uguale alla totalità del cosmo.

    Questa scoperta si è espressa prima in un linguaggio figurato, non ancora concettuale. Per fare un solo esempio, quando vogliono far comprendere che cosa è in realtà l'atman i pensatori delle "Upanishad" dicono, da una parte che risiede nel cuore, modo approssimativo per indicare che si trova al centro della persona, e dall'altra che è più piccolo del cuore stesso, più piccolo della centesima parte di un chicco di miglio. In altre parole, ci si sforza di orientare l'immaginazione verso la rappresentazione dell'infinitamente piccolo e poi, al contrario, si incoraggia l'immaginazione a slanciarsi nella direzione opposta, dicendo: questo atman, situato nello spazio del cuore, è al tempo stesso più grande del corpo, più grande della terra, più grande dello spazio tra la terra e il sole, più grande dello spazio tra il sole e gli astri più lontani. Questa specie di coincidenza dei contrari è il modo proprio dell'immaginazione di pervenire alla nozione di una entità che trascende lo spazio e trascende il tempo.

    Si può aggiungere ancora che le "Upanishad" non costituiscono, beninteso, sotto questo aspetto, un inizio assoluto. Molti indizi ci inducono a pensare che un passato, una tradizione già antica di raccoglimento, di esercizi d'ascesi, di "yoga" ante litteram, ha trovato espressione in questi testi. Ciò che fino ad allora era stato oggetto di pratiche più o meno empiriche e selvagge ha trovato, ha cominciato a trovare la sua giustificazione. L'identità dell'"atman" e del "brahman" è apparsa come la chiave dei fenomeni di estasi, cercata fin qui a tentoni senza comprendere le loro autentiche condizioni di possibilità.

    Un'ultima nozione vorrei ricordare, quella di karman e il correlativo samsara o "trasmigrazione delle anime". In effetti è nelle "Upanishad" antiche che quelle due nozioni cardinali del pensiero indiano classico appaiono la prima volta, per una ragione che non ha nulla di contigente. Infatti dal momento che i pensatori delle "Upanishad" avevano messo in luce l'essenziale eternità dell'"atman", la sua intemporalità, si trovavano a dover conciliare quella intemporalità di principio con i dati immediati dell'esperienza comune e cioè l'estrema limitazione della durata della vita umana. Hanno allora immaginato che l'anima, non avendo né inizio né fine, fosse affetta da una fondamentale ignoranza, anche essa senza inizio, senza età, che la spinge a incarnarsi, la fa trasmigrare indefinitamente di corpo in corpo e la fa compiere atti che ricevono nelle successive esistenze la loro retribuzione.

    Questo in sintesi il capitale di nozioni che le "Upanishad" hanno trasmesso alle età ulteriori. Ma si deve sottolineare il fatto che si tratta essenzialmente di stimoli vigorosi, profondi, alla riflessione filosofica, ma non si può ancora, a questo stadio, parlare di filosofia propriamente detta, perché la sistematicità, la logicità, la ricerca di un accordo tra interlocutori in una controversia, che sono i presupposti della discussione e della ricerca filosofica, qui non si trovano ancora riuniti. E' per questo che nelle età successive si faranno dei commenti alle "Upanishad" con cui si tenterà di dare a quei testi, di proiettare su quei testi, forse, la coerenza, la sistematicità che non possedevano ancora. Al primo posto tra quei commentatori, non il primo in senso cronologico, ma colui che per primo ha lasciato la sua impronta nel tempo, troviamo il maestro Sankara, Sankaracaria.
    www.esonet.org/advaita-vedanta/shankara-e-il-vedanta
     
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0 replies since 1/11/2010, 12:11   49 views
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