Tanit (Thanit, Tinnit, Tnt, Tynt)

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  1. leAlidelDestino
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    Tanit (Thanit, Tinnit, Tnt, Tynt)



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    Tanit era la dea principale di Cartagine. La sua effigie compariva nella maggior parte delle monete della città punica. Tanit nacque dal sincretismo della civiltà fenicia con quella del nord–Africa e, con l’espandersi della cultura punica, la sua divinità si diffuse ampiamente nel Mediterraneo occidentale, in Sardegna, in Sicilia, a Malta, a Pantelleria ed anche a Roma, dove fu chiamata Dea Celestis.

    L’interpretazione del nome vuole che esso derivi dal verbo tny, “lamentarsi, piangere”, e che tan nit sia “colei che piange” (una donna consacrata al Dio dell’uragano). Questa interpretazione la collegherebbe alla latina Venus lugens. Il nome di Tanit appare nella Fenicia orientale verso il 600 a.C. e a Cartagine dal 400 a.C. circa. Qui appare sempre accompagnato al nome di Ba’al Hammon.
    Tanit era una delle consorti di Ba’al, era venerata come dea protettrice della città di Cartagine e godeva di gran venerazione.

    Per i cartaginesi, Tanit era dea della buona fortuna, della Luna e delle messi. Nella mitologia era simile ad Astarte, la dea madre. Nella mitologia greca, che tendeva ad assimilare gli dèi stranieri con i propri, Tanit era paragonata ad Artemide, la dea della Luna oppure a Persefone (o Kore), dea delle messi e dei raccolti. Nella lingua egizia il nome Tanit significa “Terra di Neith” e Neith era una dea della guerra.

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    Il simbolo di Tanit era un triangolo con una barra orizzontale ed un arco o un cerchio sovrapposto (forma stilizzata che ricorda sia l’ankh egizio, sia le statuette della “Dea dei Serpenti” ritrovate nell’isola di Creta). Su questa barra appaiono il sole e la luna crescente. Si pensa generalmente che il culto di Tanit richiedesse sacrifici umani, come quello di Ba’al, l’altro componente, con Eshmun, della triade cartaginese.
    È noto che i Fenici furono grandi navigatori. Con le conquiste e con i commerci diffusero anche cultura e religione. Secondo la leggenda, Cartagine fu fondata verso l’814 a.C. da Fenici di Tiro, con i quali mantenne sempre potenti vincoli commerciali.

    Due erano sostanzialmente le divinità presenti, sia pure con nomi diversi, in ogni insediamento siro–palestinese: una divinità femminile con funzioni materne e di fecondità (detta Ba’alat, la Signora, o Ashtart) e il dio supremo, maschile (Ba’al, il Signore, o Melqart), dio della fertilità, personificazione del Sole benefico.
    I nomi propri dei Cartaginesi aiutano a comprendere l’etimologia di questo dio: Aderbale (Ba’al è potente), Annibale (Ba’al ha favorito), Asdrubale (Ba’al ha aiutato).

    Associata al suo culto, ma nettamente preminente, era Ba’alat o TANIT Pne Ba’al (Tanit, volto di Ba’al), la Grande Dea di Cartagine, patrona della città, conosciuta anche come “la Signora di Cartagine”. Il titolo Pne Ba’al significava “Viso di Ba’al” e le conferiva la precedenza su Ba’al stesso. Dea del cielo, che regola sole, stelle e luna, Dea madre invocata per la fertilità. La palma è un suo simbolo, come albero di vita. Come simbolo della forza vitale della terra, anche il serpente le appartiene ed ella è conosciuta come “signora dei Serpenti”. È identificata sia con Ashtart (Astarte) sia con Athirat. Gli altri suoi simboli includono la colomba, l’uva, il melograno (simbolo di produttività e di fertilità), la luna a mezzaluna e, come per Ashtart, il leone.
    Carthago è la traduzione latina di Karthadasht, nome fenicio che significa “la nuova città”.

    La città di Cartagine fu fondata da Fenici di Tiro in Africa del Nord, nel sec. IX a.C., non lontano dalla città moderna di Tunisi. La mitica regina Didone (Elissa, dal termine fenicio Elishat), figlia del re di Tiro e fondatrice della città, ricorda nel nome un epiteto della Dea fenicia della Luna. La sua figura perciò può essere simbolicamente legata a quella di Tanit. Il culto di Tanit data al sec. V a.C. ed è incerto se Tanit fosse una divinità locale, adottata dai coloni fenici, o una versione di Ashtart/Athirat che avevano portato con loro dalla Fenicia.

    Cartagine era il gran nemico di Roma e tre aspre guerre furono combattute fra le due potenze, nel corso di più di cento anni (sec. III–II a.C.). I Romani infine vinsero e nel loro odio assoluto distrussero la città; secondo tradizione, il luogo fu arato con sale, in modo che niente vi potesse più crescere.

    Nel culto di Tanit, importato dal mondo fenicio, sembra fossero sacrificati i figli primogeniti delle famiglie nobili. I tophet sono ampi terreni recintati, che contengono urne con ossa di fanciulli morti in tenera età, deposte singolarmente o assieme a resti di piccoli animali. In questi santuari si ergono steli di pietra, decorate con simboli sacri. I tophet sono tipici della cultura fenicia. I Fenici, quando imputavano ad una divinità l’intenzione di fare strage d’una città, non indugiavano a sacrificare vite umane, affinché il dio scaricasse il proprio furore sul capo di pochi e non di tutta la comunità. Si è pensato che i Cartaginesi donassero quanto di più caro e prezioso avessero, cioè la vita dei propri figli primogeniti. Volevano in tal modo che il dio Ba’al assicurasse la prosperità ed esaudisse i loro desideri e che la dea Tanit proteggesse la città, garantendone l’eternità. I fanciulli sacrificati venivano divinizzati e in questo modo si generava una comunicazione diretta con le forze sovrannaturali. Di solito per il rituale era sufficiente sostituire i fanciulli con una bestia viva (agnelli, uccelli, pecore), ma talvolta, per calmarsi, gli dèi esigevano davvero l’offerta del sacrificio umano.

    Diodoro Siculo, lo storico di Agira, ricorda il sacrificio di duecento bambini delle più illustri famiglie di Cartagine. Si era proceduto alla sostituzione dei fanciulli delle migliori famiglie con bambini comprati o adottati da famiglie miserabili; per redimersi dell’orrore compiuto, il governo di Cartagine decretò il sacrificio di duecento bambini, tutti appartenenti alle famiglie nobili.
    Secondo la ricostruzione fatta da G. H. Hertzberg, la vittima era scelta a sorte tra i bambini destinati al sacrificio. Il bambino prescelto, se era di famiglia importante, veniva segretamente scambiato con un altro. La vittima era appoggiata sulle braccia di un idolo cavo di bronzo e rotolava all’interno d’una fossa, dove ardeva un fuoco.

    Silio Italico (sec. I d.C.), nel libro IV della sua epopea dal titolo Punica, riferisce il caso del figlio d’Annibale, che il governo di Cartagine aveva deciso di sacrificare. La moglie del condottiero, l’iberica Imilce, si oppose all’atroce decisione e ottenne dal Consiglio una sospensione del sacrificio per informare il marito. Annibale rifiutò d’immolare il figlio e, al suo posto, giurò di sacrificare migliaia di nemici.
    Nonostante la totale distruzione di Cartagine, sono stati ritrovati i resti d’un cimitero dei bambini, che viene addotto come prova del loro sacrificio, sia a Ba’al Hammon sia a Tanit, dato che molte delle steli sono dedicate a questi dèi. Ai Cartaginesi ed ai Fenici è attribuita l’usanza di sacrificare i bambini, benché molte narrazioni provengano da fonti non imparziali, quali gli Ebrei o i Romani. Il tophet scoperto presso Cartagine conteneva migliaia di urne colme di ossa di bambini bruciate. Esso fu in uso dalla fondazione della città sino alla sua distruzione. In un tophet ritrovato ad Adrumeto si è constatato che le urne dei livelli più recenti contenevano solo ossa di animali.

    Sabatino Moscati, noto studioso della cultura fenicia, propende per l’ipotesi che il sacrificio dei bambini sia una pura fantasia. Egli sostiene che il tophet (area sacra) fosse il luogo sacro di sepoltura di bambini nati morti o deceduti subito dopo la nascita, bruciati e quindi sepolti in urne o in anfore da trasporto. Con un rito particolare, i genitori chiedevano la grazia per una nascita più fortunata.
    In Fenicia, gli Ebrei sostenevano che si bruciassero i bambini in offerta al dio Moloch (ma non vi sono prove). La parola biblica tophet significa “inferno”, riferita al luogo di Gerusalemme in cui si presumeva che i bambini fossero stati immolati a Moloch. Gran parte delle prove per l’infanticidio rituale presso i Fenici è per lo meno discutibile. In particolare, i racconti della Bibbia e della tradizione rabbinica sono derivati da traduzioni errate o da interpretazioni di parte.

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    La questione è ancora dibattuta, su entrambi i fronti. Esistono seri dubbi che i bambini fossero sacrificati e la maggior parte della storia è attribuibile alla propaganda, da parte di differenti culture nemiche (particolarmente gli Ebrei ed i Romani). Perché la gente sacrificherebbe i bambini ad una Dea, che per il resto è concepita come una benevola madre? Dato il numero di resti ritrovati (20.000 urne, datate dal 400 al 200 a.C.), quale civiltà ucciderebbe tanti dei propri bambini? Si sospetta che le tombe trovate presso Cartagine siano semplicemente i resti dei bambini che sono morti naturalmente, in un periodo in cui la mortalità infantile era molto superiore ai periodi moderni e durante il quale parecchie guerre erano combattute, tempi in cui ci si può aspettare che pochi bambini sopravvivano. Il fatto che le steli rechino iscrizioni votive a Tanit e a Ba’al–Hammon non deve sorprendere; non significa che siano stati sacrificati a quelle divinità, ma piuttosto che sono stati affidati alle mani salvatrici della Dea e del Dio, dopo la morte.

    I Romani, nonostante l’odio nutrito nei confronti dei Cartaginesi, identificarono Tanit con la loro Juno Lucina, un aspetto della loro Grande Dea, come madre e patrona del parto, una Dea di Luce che pota alla luce i bambini. Poiché Tanit era anche una Dea del cielo, i Romani la chiamarono il suo Dea Caelestis, o Virgo Caelestis. Sulle monete dei sec. IV e III a.C. è mostrata alla guida d’un leone e con una lancia in pugno, con un diadema o una corona, le spighe del frumento tra i capelli e la luna crescente dietro.

    Secondo una leggenda romana, Annibale, il grande generale cartaginese, abbatté un tempio di Juno Lacinia vicino a Crotone, città fondata dai Greci (quindi si trattava di Hera Lacinia). Quel tempio era famoso per una colonna d’oro. Annibale perforò la colonna, trovò che era effettivamente d’oro massiccio e volle prenderla come bottino. Quella notte, però, sognò la Dea che gli intimava di non spogliare il suo tempio, minacciandolo d’accecarlo del suo occhio restante se l’avesse fatto. In Juno Lacinia Annibale riconobbe la sua Dea protettrice, Tanit, e lasciò la colonna nel tempio indisturbata. Col materiale estratto dal foro fece fondere una mucca d’oro, che dispose sopra la colonna stessa.

    Il culto di Tanit fu diffuso da Cartagine in Spagna, a Malta ed in Sardegna, particolarmente dai soldati. Il tempio sull’acropoli di Selinunte in Sicilia può essere suo, per via del suo simbolo, che vi è stato trovato. Sotto il titolo di Virgo Caelestis, Tanit–Juno aveva un altare a Roma, sul lato nord del Campidoglio.
    La statua di Tanit fu portata a Roma dal giovane imperatore Eliogabalo, che regnò dal 218 al 222 e che era noto come un pervertito depravato, per le sue frequentazioni omosessuali, ma chissà quanto della sua leggenda è vero e quanto è esagerato. Egli fu assassinato all’età di 18 anni in una latrina, il suo corpo fu trascinato per le vie prima d’essere gettato nel Tevere come un criminale comune. Coltivava il culto degli dèi orientali, tanto che derivò il proprio nome dal Dio–sole, fece costruire un gran tempio a Eliogabalo a Roma e vi pose la statua di Tanit, chiamandola “la Celeste”.

    La Dea era chiamata anche: Tanith, Tent, Thinit, Tinnit, Rat–tanit, Tanis nella versione greca del suo nome. Era chiamata “Signora di Cartagine”, “Signora del Santuario”, e “Volto di Ba’al”. I Romani la chiamavano Dea Caelestis, Virgo Caelestis e Caelestis Afrorum Dea, “Celeste Dea degli Africani”, e la assimilavano anche a Juno Caelestis.

    Tanit fu assimilata ad Afrodite, a Demetra e ad Artemide dai Greci, a Giunone dai Romani, in particolare alla loro Juno Lucina, Dea della luce e delle Nascite. I Romani inoltre l’associarono con la Magna Mater, la grande madre, Rhea o Cibele.

    Il nome di Tanit sembra essere d’origine libica. Sarebbe stato accolto dai Cartaginesi, che l’avrebbero adattato ed intrecciato con elementi religiosi importati dalla madrepatria fenicia.
    Esistevano due tipi di raffigurazione di Tanit, quello antropomorfo e quello simbolico. Le statuette la rappresentano come una donna nuda che si stringe i seni, chiara indicazione di fertilità. Appare talvolta su un trono e, in epoca romana, a cavallo d’un leone. Il suo simbolo astratto è un disegno di assai discusso significato, fatto d’un triangolo equilatero, sul quale s’appoggiano una linea orizzontale ed un cerchio. A volte due barre verticali supplementari sono presenti agli estremi dell’orizzontale. Esso è stato interpretato come la stilizzazione di un altare, o una donna o Dea in abito lungo, con le braccia alzate in un atteggiamento di preghiera o di benedizione. Il significato simbolico nasce dall’unione della schematizzazione della figura femminile (il triangolo della fertilità) con i betili (pietre rituali di forma conica verticali) simbolo della presenza divina (“bt’l”, casa di Dio) e il disco solare, simbolo del ciclo vegetativo della rinascita primaverile che assicura il buon ordine delle stagioni.

    Il “segno di Tanit” non era solo un’espressione artistico–religiosa. Era l’invocazione della famiglia agli dèi perché ne assicurassero il benessere, la concordia, la fertilità e la fecondità. Promana da esso “un umile messaggio umano, l’invocazione alle divinità per assicurare alla famiglia la concordia, il benessere, la fecondità”.

    I Cartaginesi attribuivano il nome il nome di Tanit anche alla Luna, rappresentata come immagine femminile stilizzata tra gruppi di stelle. La luna muta d’aspetto nelle sue fasi, pallida, luminosa, invisibile, e perciò furono attribuite anche a Tanit denominazioni antitetiche ed ambigue: dea dell’amore e della morte, creatrice e distruttrice, tenera e crudele, protettrice ed ingannevole. Così fu identificata anche dai cristiani con Lilith, la Luna nera dei Semiti, demone infernale e protettrice delle streghe, a testimonianza della persistenza del culto lunare fino al medioevo.

    Il ritrovamento dei simboli di Tanit e dei tophet dimostra la presenza ed il dominio dei Fenici–Cartaginesi in ampie regioni del Mediterraneo, ed anche oltre le colonne d’Eracle. Nella città siciliana di Selinunte, i simboli religiosi documentano inequivocabilmente il culto di Ba’al e di Tanit. Alcuni pavimenti in cocciopesto recano il simbolo di Tanit, con il caduceo, formato da tessere bianche in mosaico. Tanit assicurava alla famiglia la concordia e la prosperità del commercio col caduceo (la bacchetta magica alle cui estremità sono posti due cerchi tangenti, simboleggianti due serpenti che si intrecciano alla verga). Sul medesimo pavimento si osserva una testa di toro incoronata, simboleggiante la ricchezza e il benessere. Erice, vicino a Trapani, fu popolata dagli Elimi, che vi eressero un tempio dedicato alla dea della fecondità e dell’amore. I successivi dominatori intitolarono il tempio alle loro divinità, così i Fenici vi adorarono Tanit–Astarte, i Greci Afrodite, i Romani la Venere Ericina. Ad Ibiza (Baleari) la dea Tanit cambiò il nome in Astarte, quando i Cartaginesi occuparono l’isola 2600 anni fa. Anche in Cornovaglia e nella parte occidentale dell’Inghilterra sono stati trovati i simboli di Tanit lunare, presso i quali venivano celebrati riti con falò e feste pagane. È persino possibile che il grande festival celtico di Beltane, il primo di maggio, derivi dal nome delle due divinità, Ba’al e Tanit.

    Curiosa è la leggenda dell’Isola di Pantelleria, estrema propaggine dell’Italia nel Mediterraneo che si protende verso l’Africa, relativa allo squisito vino che ivi si trova.
    Su questo vino si racconta la leggenda della dea Tanit che, invaghitasi d’Apollo, voleva attirarne l’attenzione. Chiese perciò un aiuto a Venere, che le consigliò di salire sull’Olimpo e di fingersi coppiera. Tanit seguì il consiglio e sostituì all’ambrosia, bevanda abituale degli dèi, il mosto delle vigne di Pantelleria. Il trucco riuscì e Apollo non solo notò Tanit, ma se ne innamorò. Da allora Pantelleria può farsi vanto di produrre un vino capace di sostituire l’ambrosia degli dèi.

    Il rito di Tanit si rinnovò anche dopo la distruzione di Cartagine nella città che prese il posto di quella antica. Qui si mantenne tenacemente sino all’invasione dei Vandali, che distrussero il tempio nel sec. V d.C., ed acquistò grande popolarità non soltanto in Africa, ma anche a Roma e nel suo esercito. Si narra che il culto della dea fosse importato a Roma da Scipione l’Africano Minore, ma potrebbe essere una leggenda, in quanto non sono stati trovati indizi di culto romano di Caelestis, come fu chiamata, prima di Settimio Severo, africano di nascita. Un tempio di Tanit sorse a Roma (non prima di Caracalla) su un fianco del Campidoglio, vicino all’antico e venerato santuario di Giunone Moneta. La divinità protettrice di Cartagine fu assimilata con Giunone, ma del suo culto a Roma ci sono scarse notizie. Pare, sempre a Roma, che il corrispondente maschile, oltre a Ba’al, fosse Eshmun, generalmente identificato con Esculapio, dio patrono della medicina.

    tratto da: www.liutprand.it
     
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